Il piatto
In un menù armonioso una zuppa e una vellutata devono esserci. Danno il senso di casa, ricordano il calore della famiglia. Ed è un bel modo per valorizzare le tradizioni della cucina italiana». Davide Oldani, l’inventore della cosiddetta Cucina pop, chef milanese stellato che tiene lezioni perfino ai master di gestione aziendale ad Harvard, in queste settimane prepara una vellutata di cavolfiore con succo ridotto di arancia servita su un tabbouleh di cavolfiore grattugiato a crudo e piccole uova di trota del Nord Italia. Nel suo menu può capitare anche la zuppa di cicerchie («una delle mie preferite») oppure la vellutata di zucca con riduzione di porto e leggero succo di zenzero a freddo. Insomma la grande cucina italiana non disdegna una bella buona e sana minestra. Meglio – secondo Oldani – se vegetale e non di carne o pesce.
L’aria profumata
Puntano invece sul brodo di carne i fratelli Damini, macellai-ristoratori di Arzignano (Vicenza). Concordi però nel richiamo ai valori di casa. «Portate il brodo a ebollizione – dice Giorgio, anche lui stellato Michelin – fino a quando l’aria profumerà di riunioni di famiglia, di domeniche trascorse attorno a un tavolo. Apprezzerete i gesti antichi di donne, mamme e cuochi per trasformare prodotti semplici in portate dal grande valore emotivo e culturale».
A casa ognuno può creare la sua variante. Com’è del resto nella popolare storia delle minestre. Basti pensare alla poverissima acquacotta della Maremma fatta solo con cicoria e altre erbe selvatiche, originariamente pasto di braccianti, pecorai, boscaioli, carbonai. L’unico ingrediente comune a tutti era un olio pungente e poi ognuno aggiungeva per insaporire quel che riusciva a trovare. Un po’ di pecorino o di cacio, un pesce di fiume o un’acciuga salata, un uovo o un osso di prosciutto, un carciofo o una rapa.
Proprio la Toscana è la patria italiana delle zuppe. Le più note sono la minestra di farro, la farinata col cavolo nero, la pappa al pomodoro e la carabaccia, cioè la zuppa di cipolla col pane sopra. È la popolarissima madre della raffinatissima soupe à l’oignon dei francesi. A Parigi arrivò nel Cinquecento grazie ai cuochi di Caterina de’ Medici, diventata regina di Francia, colpevole di aver regalato agli avi di Macron anche le ricette dei macaron e della besciamella (preparazione tosco-emiliana che la Regina dedicò al nobile Louis de Béchameil).
Il pane raffermo
Sempre in Toscana c’è la zuppa delle zuppe, la ribollita, vera gloria della cucina regionale. Sostanzialmente una minestra di fagioli cannellini e cavolo nero del giorno prima, riscaldata (ribollita appunto) con l’aggiunta di pane raffermo sul fondo e sopra anelli di cipolla cruda. Originariamente veniva preparata il venerdì, giorno in cui non si mangiava carne, e quel che avanzava si consumava il sabato. Nel 1891 Pellegrino Artusi nel descriverla afferma che “per modestia, si fa dare l’epiteto di contadina sebbene sia persuaso che sarà gradita da tutti, anche dai signori”.
Un ampio capitolo meriterebbero infine le zuppe di legumi con la pasta. Prima fra tutte pasta e ceci, codificata per primo dal romano Adolfo Giaquinto, poeta, cuoco, giornalista e – con quella ricetta di fine Ottocento – “benefattore dell’umanità”, secondo lo storico dell’alimentazione Allan Bay.