La semola
No, non è figlia di un Dio minore tutta la famiglia di semola e semolino. La sua reputazione di cibo della primissima e dell’ultima età, con pappette per neonati o gustose minestrine per anziani con problemi di masticazione, non deve infatti farne dimenticare la grande versatilità per il buongustaio. In pratica, dalla macinazione dei cereali (il più comune dei quali è il frumento, o grano duro), si ottengono la semola, oppure il semolino, di grana molto più fine. Da questo momento in poi, tutto il potere va alla fantasia.
Basti pensare a uno dei grandi classici del calendario gastronomico della Capitale, piatto iconico del giovedì: gli gnocchi. Quegli gnocchi di latte alla romana che «erano, ai tempi, il piatto di prammatica che i buoni romani solevano accompagnare ad ogni riunione che avesse lo scopo di festeggiare qualche cosa. E specialmente trovavano il loro trionfo in rinfreschi per battesimo o in cene carnevalesche». Lo scriveva Ada Boni, la mitica autrice del Talismano della Felicità, oltre che dell’indispensabile La Cucina Romana pubblicato nel 1929.
L’anomalia
«Detto fra noi, gli gnocchi sono una vera e propria anomalia nella nostra cucina», spiega Arcangelo Dandini che, col suo L’Arcangelo in Prati, rappresenta da anni un solido riferimento per i foodies. «Piatto romano, ma per certo di derivazione “alta?”, data la presenza di ingredienti non tipicamente romani come il burro e il Parmigiano».
La semola è al centro del più diffuso piatto della sponda africana del Mediterraneo, il cous
cous, protagonista in Sicilia di uno straordinario fenomeno di fusion. Paolo Borzatta, guru dell’extravergine a Canino, trapanese di adozione per via di barche a vela, ne racconta con passione le storie. «Il “cuscusu” nasce dagli scambi tra pescatori e viene esaltato dall’uso sapiente del brodo di pesce. Il brodo consente la cottura a vapore con l’apposita couscoussiera divisa in due parti da una striscia di pane. Fra l’altro il suo servizio regala valore aggiunto estetico grazie all’uso della “mafaradda”. Un piatto basso e largo dai bordi svasati, che accoglie quello che è un autentico trionfo di pesce».
Per gli appassionati vale la pena anche una puntata a San Vito Lo Capo che ospita da venticinque anni (l’edizione 2022 si farà dal 16 al 25 settembre) il Cous Cous Festival dove, fra l’altro cuochi da tutto il mondo si cimentano in gioiose e diverse versioni di questo formato.
Dal Mediterraneo profondo al Mar Ligure c’è un grande viaggio, ma anche qui si parla di contaminazioni col cous cous nordafricano. Contaminazioni che addirittura arrivano nel minestrone con lo “scucuzzù”, piccole sfere di semola che danno consistenza al mix di verdure e pesto. «La parentela col cous cous è certa», spiega Andrea Pedemonte Cabella. Doge’ del Sant’Olcese, aristocratico salame della Val Polcevera, e grandissimo conoscitore della cucina della sua Liguria.
I chicchi
«Il procedimento è uguale, ma in Alta Valle Scrivia, la parola, in modo onomatopeico, vuol dire grandine, cui peraltro i chicchi assomigliano. L’idea di antichi scambi tra marinerie però è più poetica, e quindi teniamoci quella». Impossibile evitare a questo punto un passaggio alla Sardegna dove regna la fregula. «Si tratta di piccole sfere di farina di grano duro macinate, setacciate e poi rotolate in un catino per avere una forma regolare. Risottate o bollite sono base di tanti piatti, specie di mare, nella mia Sardegna», chiosa Marco Damu, vulcanico patron dei Piani nel quartiere romano dei Parioli.