Il piatto
È sempre festa se a tavola arriva un troneggiante sartù di riso. Lo è un po’ meno per chi deve prepararlo, imprigionato in cucina per lunghe ore. Su un vecchio ricettario del Gambero Rosso su 91 ricette dedicate al riso è tra le dieci che necessitano dei tempi più lunghi di elaborazione. È addirittura al secondo posto per livello di difficoltà. Ovviamente non è in classifica tra le ricette light, perché dentro ha di tutto. Riso, salsiccia, carne macinata, passata di pomodoro, mozzarella, piselli, formaggio, cipolle, pane grattugiato, vino bianco, almeno due litri di brodo buono e aromi.
In alcune famiglie (ovviamente ognuna ha la sua ricetta perfetta) tutto questo neanche basta. «Nu sartù turzuto e àveto, ova toste e purpettine, cu ‘e pesielle e chin’ ‘e provola, parmigiano e fegatine, rrobb’ ‘e Napule, gnorsì. Si cucine cumme vogli’i’», diceva Eduardo De Filippo. «Un sartù bello alto e grosso – traduciamo – deve avere uova sode, polpettine, dev’esser fatto coi piselli, pieno di provola, parmigiano e fegatini. Una cosa di Napoli, signorsì, si cucina come voglio io».
La storia del sartù di riso
«Cosa di Napoli», certo, ma anche un po’ francese. Perché gran merito si deve ai monsù, come i napoletani nel ‘700 chiamavano i monsieur le chef arrivati al seguito di Maria Carolina, sposa di re Ferdinando, più noto come re Lazzarone. «Ironia della sorte – scrivono Maria Teresa Di Marco e Lidya Capasso in La cucina di Napoli (Guido Tommasi Editore) – perché il re delle tavole dei mangia maccheroni ha come protagonista il riso, ritenuto a lungo dalla Scuola Medica Salernitana uno sciacquabudella per chi soffre di problemi gastrointestinali. I monsù nobilitarono quello che era considerato un medicamento e crearono il sartù, ovvero sort tous, superiore a tutti».
Altra interpretazione di sort tous è “copri tutto”, riferendosi al pangrattato che ricopre il monumento di riso. Luciano Pignataro nel suo imperdibile La cucina napoletana (Hoepli) individua già a inizio ‘800 le prime ricette della «pietanza di gala, sontuosa, ricca di ingredienti e quindi di sapori e di profumi. Tipico della festa e della ricorrenza importante e per questo inimitabile, non riproducibile in una versione povera e scarna di ingredienti. Non a caso, forse, per le bocche e i palati del popolo furono pensate le granate napoletane e le arancine siciliane di riso».
In leggerezza
I tempi però cambiano e s’avanza la cucina leggera. Del resto, nei giorni di magro già a inizio del Novecento veniva servita la variante Marconese (la ricetta di oggi). Di Marco & Capasso suggeriscono per esempio il sartù di mare (con lische, teste di pesce e gusci di gamberi) oppure bianco senza ragù. Lo storico Cucchiaio d’Argento propone il sartù vegetariano alla crema di pomodoro.
Il punto fermo per tutti è la scelta della varietà di riso da utilizzare. Vince il Carnaroli, i cui chicchi hanno la percentuale giusta sia di amilosio (che aiuta a resistere all’assorbimento dei liquidi) che di amilopectina (che agevola la consistenza cremosa). È una varietà coltivata del Nord Italia, ma nel Rinascimento «piglisi il riso milanese o di Salerno che sono i migliori», scriveva Bartolomeo Scappi. Non un qualunque chef di oggi o un presuntuoso monsù d’Oltralpe, ma il più famoso dei cuochi dei papi del ‘500.
Il sartù di riso alla Marconese da La tradizione a tavola dell’Accademia Italiana della Cucina – Bolis Edizioni
Questo piatto, tipico della Campania, si usa nei giorni di magro.
Ingredienti
- Riso 350 g
- Burro 100 g
- Zucchine 400 g
- Mozzarella di bufala 1 grande
- Pangrattato
- Parmigiano Reggiano
Preparazione
Step 1
Cuocere il riso al dente in acqua salata, scolarlo e condirlo con burro e parmigiano grattato.
Step 2
A parte tagliare le zucchine a tondini e friggerle in olio bollente.
Step 3
Imburrare una teglia cospargendola di pangrattato, versarvi uno strato di riso, poi uno strato di zucchine, mozzarella a fettine e parmigiano. Preparare così vari strati.
Step 4
Mettere in forno a 180 °C per un quarto d’ora, poi capovolgere su un piatto da portata e servire.
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