Il ritorno
Un tempo popolarissimo, poi snobbato, ora è una ricercata raffinatezza: il pesce di acqua dolce è tornato sulle tavole degli italiani. Tant’è che fa gola perfino ai pescatori di frodo. Pensate, tempo fa sul Tevere cinque rumeni sono stati fermati con ben 700 chili di pesce catturato illegalmente. Del resto, il fiume della Capitale è stato sempre generoso: fino a un centinaio di anni fa le nasse venivano piazzate sotto Ponte Cavour e al Ghetto c’era un mercato dedicato.
Ancor prima, al Foro Traiano, una delle due enormi vasche all’ingresso era riservata ai pesci d’acqua dolce di cui andavano golosi gli antichi Romani, tanto da fare arrivare in carri cisterna il prelibato salmone del Reno. Nell’antichità nelle acque di Bolsena e Bracciano non c’era però ancora il coregone, importato 150 anni fa dalle Alpi. È uno dei pesci d’acqua dolce più venduto, per essere poi cucinato grigliato, in umido col pomodoro oppure al forno con le patate.
L’aceto
Gli altri più comuni sono la carpa (dalla carne grassa che prima di essere cotta va messa in ammollo in acqua e aceto), il persico (attenzione: nei supermercati è comune l’omonimo che arriva dal Lago Vittoria in Africa). Poi il luccio (prevalentemente nel Nord-Est) e ovviamente la trota (quasi sempre di allevamento). Molto comune al Nord è l’agone, una specie di sarda, che alcune famiglie del lago d’Iseo continuano (clandestinamente) a essiccare appendendole al sole ai fili della biancheria.
Dalla tradizione alla innovazione il passaggio è breve quando a farlo sono i grandi chef. Alfio Ghezzi del ristorante Senso di Limone sul Garda ama il pesce d’acqua dolce perché «cresce lentamente nei torrenti e nei laghi alpini, il che rende la carne ben consistente». «Ma attenzione – avverte – richiede cotture millimetriche e tanta passione, altrimenti meglio lasciar perdere».
Nel suo menù c’è un favoloso salmerino alpino in carpione con la salsa agra delle sue uova. A proposito, il carpione dà nome alla tecnica perché si ritiene che la semplice bollitura per dieci minuti esalti la delicatezza della carne, sulla quale basta poi aggiungere un filo di olio. “Gente di lago” è il movimento al quale ha dato vita Marco Sacco, due stelle Michelin sul lago di Mergozzo, accanto al più noto Maggiore. «Un tempo – dice Sacco – il pesce d’acqua dolce si mangiava frequentemente, poi l’alta ristorazione si è assoggettata alla moda di capesante e gamberi».
L’ambiente
A spingere gli chef a impegnarsi è la volontà di salvaguardare e valorizzare l’ambiente naturale. «È importante – afferma Sacco – tracciare l’arrivo di pesci non autoctoni, imparare a regimentarli, a utilizzarli in cucina con l’aiuto dei pescatori. Dobbiamo “leggere” il lago in modo dinamico». Un altro protagonista è Leandro Luppi, chef a Malcesine, promotore di Fish & Chef, manifestazione dedicata al pesce d’acqua dolce sul Lago di Garda. Tantissimi i cuochi coinvolti. Tra questi anche Andrea Costantini (che firma la ricetta di oggi) e, provenienti dal Lazio, Antony Genovese del Pagliaccio di Roma, e i fratelli Serva di Rivodruti. «Una volta – racconta Luppi – facevo i soliti piatti, poi mi sono detto: ho 70 chilometri di lago e 40 specie diverse a disposizione, che senso ha non usarle?».