Il panettone
C’era un tempo in cui compravi la confezione azzurra col profilo stilizzato del Duomo di Milano e andavi sul sicuro. Da 100 anni – era il 1919 quando Angelo Motta fondò l’azienda col suo nome – quella marca era quasi sinonimo del Natale. Ora non c’è però panettiere, chef, anche solo scaldapentole, che non proponga il suo personale panettone. Ma come capire se siamo di fronte a un capolavoro del gusto o piuttosto preda dell’ennesima fregatura (visto che i costi sono tutt’altro che economici, da 25-30 euro al chilo in su, invece dei 4-5 degli industriali)? A uso e consumo di chi cerca il prodotto artigianale, ecco quindi un mini corso di panettologia essenziale. Partiamo dalla fine, dalla degustazione, facendoci guidare da Dario Loison, produttore a Costabissara, in Veneto, dove ha persino creato il primo Museo italiano del panettone.
Le tonalità
«Per prima cosa – suggerisce – vanno esaminati i colori esterni e interni, l’omogeneità dell’alveolatura e la conformità della forma e dell’impasto». La crosta esterna non deve essere bruciata o troppo chiara. L’interno giallo color miele tendente alla nocciola. Gli alveoli rivelano la qualità della lievitazione che nel panettone «è una vera e propria opera di ingegneria dolciaria, capace di trasformare in una nuvola aerea un impasto ad altissimo peso specifico». Parole quest’ultime di Antonella De Santis del Gambero Rosso, che prosegue: «Gli alveoli non devono essere cavernosi, dovrebbero spingere verso l’alto, e custodire una struttura filamentosa».
Mangiato con gli occhi il panettone, passiamo alle sensazioni olfattive. «Le più complesse – afferma Loison – poiché sono molti gli elementi da esaminare. La fragranza aromatica e la sua molteplicità. L’intensità del burro, del lievito, della frutta candita e della vaniglia. Il tutto valutando persistenza e profondità». Importante nel giudizio è il tatto. Va valutata la resistenza durante il taglio, la sofficità, la consistenza e l’umidità. L’elasticità è sintomo di un buon prodotto: provate a schiacciarne un pezzettino, la pasta deve tendere a tornare come prima.
Il giudizio del gusto, in bocca, è il più difficile, perché il più personale, il meno oggettivo. «In questa fase – per Loison – va analizzata la complessità della struttura e la sua dolcezza. L’intensità e la piacevolezza dell’aroma del burro, del lievito naturale, del cedro e dell’arancia canditi, dell’uvetta e di altra frutta se presente. La consistenza e l’amabilità della farcitura, se c’è. Al termine valutate l’equilibrio dei gusti, la loro persistenza e il retrogusto». Una leggerissima sensazione finale acidula è per esempio segno dell’uso di un buon lievito madre.
L’umidità
Un punto di forza degli artigiani è che producono anche dimensioni grandi e si sa che il volume maggiore trattiene più umidità favorendo una migliore lievitazione. Un limite è che durano meno giorni (30) perché altrimenti vorrebbe dire che sono stati usati conservanti o enzimi che rallentano il deterioramento. Quando lo si consuma, bisogna evitare che sia freddo, va gustato leggermente tiepido «perché il calore favorisce l’emanazione di tutti gli aromi» raccomanda Loison. Che conclude con un’ultima valutazione. «C’è un elemento che esula tutti gli altri, ma è altrettanto importante e aggiunge piacere: è la ritualità».