Le feste
Il catalogo di Leporello delle belle che amò Don Giovanni è poca cosa rispetto alle molteplici variazioni regionali sul tema del panettone, il principe dei dolci di Natale. Alla caccia dei panettoni degli altri, il percorso può infatti attraversare tutta la Penisola. Dal Pandoro veronese al Pandolce di Genova. Dalla Bisciola della Valtellina al Parrozzo abruzzese, ma anche al Certosino di Bologna.
Se guardiamo al problema da un punto di vista storico, dobbiamo riconoscere che tutto nacque dal pane, alimento simbolico per eccellenza. Una volta all’anno, in occasione della grande ricorrenza liturgica, diventava un “pane di tono” arricchito da ingredienti preziosi come il miele, le spezie, i canditi per arrivare alla sua simbolica trasfigurazione dolce. Prodotto da fornai quindi in origine, prima che la mano passasse ai pasticcieri per arrivare ai dolci di Natale moderni.
La quintessenza
La partenza è sulla collina sopra Genova, località Pontedecimo. Siamo nel regno della famiglia Grondona, duecento anni di storia e un capitalismo ancora di stampo antico per una fabbrica di dolci e di biscotti che, col suo pandolce, esprime la quintessenza del dolce della festa genovese, che si vuole risalga ai tempi di Andrea Doria. Tutto, intorno all’antico biscottificio, odora di zucchero e di burro.
Orlando Grondona e il figlio Francesco, amanti della natura, fini gourmet e collezionisti rigorosi di grandi etichette si confrontano, in italiano e in genovese, con i dipendenti, per raccontare il vero Pandolce, u Pandüçe. «In antico c’era l’olio, oggi il burro – niente roba sostitutiva – e poi facciamo una frolla di qualità, con un lievito madre antico che rinfreschiamo ogni giorno, pinoli pisani, frutta candita, tutto al meglio della qualità».
La tappa in Abruzzo, col Parrozzo, un dolce tipico del Natale, parte di nuovo dal pane, in questo caso di farina di mais, cotto nel forno a legna. Ma fu un geniale pasticciere di Pescara, Luigi D’Amico, che ne ideò la forma moderna. Con uova (per ricordare il giallo della farina di mais), mandorle e copertura fine di cioccolato. Tanto da sollecitare l’ispirazione di D’Annunzio che, nel 1926, dedicò al dolce dei versi encomiastici in abruzzese (…e che duvente a poche a poche / chiù doce de qualunquea cosa ddòce…) dichiarandosi da quel giorno “parrozzàno”.
Il solstizio d’inverno
Allo stesso modo, se dietro al Pandoro come lo conosciamo noi c’è il talento di un pasticciere di Verona, Domenico Melegatti, che ne brevettò la ricetta nel 1894 (così come i Perbellini di Bovolone, sempre nel veronese, avevano brevettato l’Offella d’Oro), anche nel Natale dei romani compare la mano di un fornaio-pasticciere, sintesi perfetta delle due sapienze. Il personaggio si chiama Angelo Colapicchioni, quarta generazione di una generosa dinastia dell’arte bianca, con forno in via Tacito dal 1934.
Correva l’anno 1977, nei funesti anni di piombo, quando questo fornaio-pasticciere volle dare vita a un’idea gentile per il momento delle Feste. Il suo Pangiall’Oro, nacque da un formato risalente all’era dei Cesari, ricetta codificata da Apicio. Un pane giallo a forma di disco che si consumava in forma propiziatoria per il ritorno del sole nel solstizio di inverno. «Il mio dolce – spiega Colapicchioni – è una rivisitazione golosa (c’è anche il cioccolato): miele, nocciole del Lazio, pistacchi, noci, uva sultanina, canditi».