La parola “fusion” è entrata nel linguaggio e nella moda con significati diversi. Oggi, sul versante virtuoso, la fusion esprime il lato positivo della globalizzazione (sotto il profilo della reperibilità) delle materie prime, e l’impiego diffuso di tecniche provenienti da altre latitudini gastronomiche. È un fenomeno che ha sempre caratterizzato la cucina che, via via, si è appropriata dei pomodori, del cacao del nuovo mondo, di tecniche di cottura o di lavorazione delle materie prime.
Facile esempio è la dimestichezza della cucina moderna occidentale con la tecnica di frittura orientale, tempura, presente anche in bistrot e trattorie. Cercare esempi fusion a Roma è facile. Non si tratta quindi di andare alla ricerca del sushi perduto, ma di cogliere sensibilità di altre culture.
Due esempi perfetti, i menù di Anthony Genovese del Pagliaccio, cuoco cronometrico esatto come pochi nel dosaggio di componenti multiculturali, e le invenzioni di Francesco Apreda, grande sensibilità per l’Oriente, e meraviglioso impiego delle spezie. Fusion anche la proposta di Somo, con sapori classici e internazionali. Divertente rovesciare la prospettiva, come al Bistrot 64, dove un bravissimo cuoco giapponese, Kodaro Noda, costruisce piatti di felice contaminazione, ma anche racconta, secondo la sua sensibilità classica come carbonara e amatriciana.