I muscoli, i tatuaggi, il quartiere, i graffiti, i garage, le moto, la musica, la personalità, l’energia, il sogno. E la pizza. Mike Bancale è tutto questo. E dai vicoli popolari di Napoli fino alle strade americane di Brooklyn, tra lavoro duro e umiltà sincera, di tutto questo fa quasi sfoggio. Lascia il segno per quanto parla, ma ancora di più per quanto fa. E dal giovanissimo dei suoi 32 anni, di cose ne ha già fatte, ne ha già fatte tante. E, soprattutto, ne vuole fare. «Perché l’America promette, e poi mantiene pure».
Le radici: due parole sulla Napoli di Mike Bancale, sulla tua vita di ragazzino.
«Napoli è amore e odio da sempre. Sono cresciuto in un quartiere modesto del centro, tra Capodimonte e il Museo. Mamma infermiera, papà imprenditore e soprattutto tuttofare. Ricordo i pomeriggi a casa, spesso non mia, ad ascoltare la musica, a giocare al computer e a smanettare con il mangianastri. A 8 o 9 anni già vivevo della mia (s)mania di creare. Registravamo quelli che adesso chiamerei “mix tape”, non avevamo idea di cosa facessimo, ma ci piaceva l’idea che eravamo noi gli autori. Da lì l’amore pazzo per la musica, per l’arte e addirittura per l’invenzione.
Onesto: Napoli non la capivo da ragazzino, da adolescente in qualche modo la odiavo, mi sentivo rinchiuso, braccato. Mi stava stretta, incolpavo la città, ma oggi mi rendo conto che era solo la mia voglia di scoprire. Tornare era bellissimo, ma ogni volta, pur di assecondare il mio entusiasmo, andarsene lo era comunque di più.
Da adulto invece mi manca, eccome. Quando vado a casa la venero. Adesso Posillipo, Sorrento, Mergellina, come tutti gli scorci da cui si vede il Mare – “Scrivilo con la maiuscola!”, quasi mi sgrida – sono il mio vero grande “Sogno Americano”».
Le ali: due parole sulla tua America, come ci sei finito a Brooklyn?
«Io sono cresciuto a casa degli altri. Lo dice sempre pure mia mamma. Il mio vicino è da vent’anni il mio migliore amico ed è lui che mi ha fatto appassionare all’America. Anzi, suo padre: veterano di guerra del Vietnam, gli parlava solo in inglese, con me che rimanevo come ipnotizzato, assolutamente affascinato. Brooklyn comincia a casa loro, i suoi me li ricordo ancora. Io a Brooklyn non ci sono finito. Io Brooklyn me la sono cercata.
Gli Stati Uniti sono la terra dei sognatori e di chi dei suoi sogni vuole farne realtà. La cosa che più mi ha fatto innamorare di questo universo qua è la positività delle persone. In Italia, quando dicevo che avrei voluto aprire un locale, i commenti erano tutti puntualmente e assolutamente negativi: “ma dove vai?”, “mica è facile!”, “poi ti ritrovi pieno di debiti!”, “e le tasse?”, “ma non è meglio il posto fisso?”. Insomma, un disastro.
In America, la gente ti trasmette voglia di fare, ti incoraggia e ti spinge, fa il tifo per te anche se non ci deve guadagnare niente e se neanche ti conosce. È un modo di essere, di vivere. Qui le persone mi hanno sempre e solo sostenuto e non mi sono mai sentito schiacciato verso il basso. Certo esistono invidia e gelosia, ma vincono entusiasmo e positività. Ecco, due cose che amo dell’America e del suo mito».
E adesso? Più pizzaiolo o più imprenditore? Che vuoi fare da grande, qual è il tuo sogno?
«101% imprenditore. Sono “the master of nothing”, “il maestro di niente”. Mi piace fare di tutto, di testa mia, ma chissà, magari il mio talento è mettere le cose e le persone assieme, far nascere progetti che funzionino, inventare insieme agli altri. Al di là dei sogni e dei soldi, vivo dell’energia delle persone, mi piace sì fare business, ma ancor di più essere ospitale.
Da grande? Da grande voglio continuare a fare quello che faccio, cioè immaginare progetti in ambiti di cui sono appassionato. Il sogno dei sogni è avere un Resort, che mi riporta al punto di partenza, a quell’idea di ospitalità massima, persino alta, di cui mi affascinano architettura e atmosfere in generale. So che sembro pazzo: ma adoro le costruzioni e il Resort me lo vorrei proprio costruire io, da solo, con le mani mie».
Come del resto hai fatto con questo posto. La pizza di “Salsa” – il suo locale di Greenpoint – è orgogliosamente napoletana. Eppure tra queste mura si respira una sorta di aria latina…
«Quando dici “Salsa”, dipende da dove sei, e in che contesto. Una parola dalle interpretazioni assai diverse. “Salsa” a Napoli è ‘a sarz’, il sugo, la salsa. Anche in America Latina la “Salsa” è la salsa di pomodoro. Negli Stati Uniti invece, per l’americano medio, la “Salsa” è la salsa per i nachos. Ma attenzione, fuori dal contesto food, la “Salsa” è tutto un mondo: è un ballo, i millennials direbbero è un mood, quasi una maniera di vivere la vita. La “Salsa” come musica è allegra e si sposa alla perfezione con il concetto di pizza: è “fun food”, è divertente. Insomma, ho voluto creare un “melting pot”, un miscuglio di culture.
C’è una verità di questi posti che spesso non trapela: a New York la metà dei pizzaioli sono latini. E io personalmente ho avuto modo di beccare un sacco di autentici talenti. Purtroppo c’è poca riconoscenza per svariati motivi, tra cui lo stato di immigrazione, talvolta illegale. Manca anche un tocco di intraprendenza, ma il genio c’è e io voglio essergli riconoscente. Cultura e cibo napoletano, sì. Ma dell’ispirazione un grosso trancio, diciamo una “slice”, proviene forte e orgogliosa pure da questa parte di mondo».
Ancora Brooklyn, il tuo quartiere: come lo definiresti in una parola sola?
«Imprevedibile. Brooklyn è un universo artistico e libero, con miriadi di novità, sempre all’ordine del giorno. Brooklyn è terra di immigrati e di emarginati.
Nel tempo, le varie culture hanno imparato a coesistere, si sono sovrapposte e in rare eccezioni addirittura fuse. Ogni pezzo di questo quartiere ha un passato, le persone di diversa etnia e cultura si continuano a spostare e disegnano aree nuove, spesso ben distinte tra loro. Basta pensare agli ebrei di Williamsburg o agli italiani di Bensonhurst. Ma questo per citarne solo due. Brooklyn è tutta così, e per tutta Brooklyn ne vale assolutamente la pena. Ispira, motiva. E punisce, se necessario. Napoli mi ha cresciuto, Brooklyn m’ha fatto uomo. Chi vive di arte non può non amare Brooklyn. Dalla moda alla pittura, gli artisti, pure quelli che non lo sanno, hanno un bisogno disperato di approdare qui. Almeno una volta, di passarci, di incontrarla faccia a faccia».
In definitiva, la cosa che ti piace di più degli Stati Uniti…
«La speranza, il senso di possibilità. Qua si può. Qua nulla è impossibile, com’è vero magari ovunque. Ma qua è “più vero”, negli States lo senti, tu puoi credere in te».
La pizza più stravagante che hai mai preparato?
«Provola, pomodorini, gorgonzola, peperoncini “serrano”, avocado e prosciutto di Parma.
Follia totale, l’ho dovuta togliere: si vendeva solo quella».
La cosa, invece, che ti manca di più di Napoli?
«I miei amici, Johnny. La mia mamma. Gli artisti nostri».
La passione per la palestra, quella per i tatuaggi, quella ancora per i viaggi: ma insomma, chi è Mike Bancale?
«Io sono un sognatore, quello che penso, quello voglio fare. Tutto, o quasi tutto, nasce dal sogno. L’idea poi diventa desiderio, e si trasforma nella mia nuova missione. La palestra è la mia terapia da quasi 15 anni. È anche l’unica cosa che davvero mi “obbliga” a prendermi del tempo per me. Mi tiene in forma e mi tiene calmo. I tatuaggi invece sono la mia storia, i miei cani, il mio passato e di nuovo le mie speranze. Sono ancora in…lavorazione, ma già lo so: finirò col non avere più spazio. Viaggiare, infine, è la maniera più facile e più potente per allontanare l’ignoranza. Viaggiando apprezzi tutto, soprattutto casa tua. Tornare e realizzare cos’è che hai imparato è senza dubbio la mia parte preferita. Cerco di visitare un posto nuovo ogni volta che viaggio, ho anche una mappa a casa per segnarmi cosa manca. Vedi? Neanche lo sapevo, ma ho già un altro progetto in corso!»
(Salsa Pizzeria Napoletana & Street Food di Mike Bancale, 40 Clifford Pl, Brooklyn, NY)