«Se me frulla un pensiero che me scoccia, me fermo a beve e chiedo aiuto al vino», scriveva Trilussa, cliente abituale dell’Hostaria di Francesco e Diomira Porcelli in via Benedetta nel cuore di Trastevere. Francesco, per tutti Checco “er carrettiere”, perché esperto selezionatore di vini dei Castelli che poi portava col carretto in città, seppe mettere in piedi le basi per un luogo di felice cucina romanesca che divenne in breve un punto di ritrovo di appassionati per scanzonate abbuffate.
L’hostaria, col suo fresco giardino interno, sarebbe diventata col tempo anche un rifugio tranquillo dalla movida di quartiere. Piatti che erano il vanto di Pippo, figlio di Checco, innamorato della sua città, estroverso cultore della tradizione e anche celebre per i suoi sberleffi (degni della famosa scena con Eduardo De Filippo nell’Oro di Napoli).
Tanti i suoi piatti: un caso per tutti è l’amatriciana. È vero che i puristi amano osservare che Amatrice non era in territorio romano, ma è non meno vero che lungo le vie dei commerci, questo modo di condire la pasta era penetrato nell’Urbe già dai tempi del Papa Re. Dalla più ancestrale gricia (senza pomodoro) l’amatriciana si impose come un piatto potente, da scarpetta, quasi a volerne sottolineare la natura povera, ma sontuosa, di piatto unico.