«Da consumare entro il» o «da consumarsi preferibilmente entro il». Quel «preferibilmente» sull’etichetta dei prodotti alimentari è diventato argomento di vivaci contrasti, perfino diplomatici. E di inattese decisioni.
Come quella presa dalla catena inglese di supermercati Morrisons che sulle etichette dei cartoni di latte aggiungerà oltre all’avverbio, il suggerimento ai clienti a fare lo sniff test per verificarne la qualità. Come a dire: annusatelo e, se non ha odore rancido o cattivo, usatelo tranquillamente. Risparmierete soldi e aiuterete il pianeta.
«Il nostro è un passo coraggioso – ha dichiarato alla Bbc Ian Goode, senior milk buyer della Morrisons perché chiediamo direttamente ai clienti di stabilire se il loro latte è ancora buono da bere. Generazioni prima di noi hanno sempre usato naso e olfatto e credo che possiamo farlo anche noi. Pensiamo che il latte dovrebbe essere consumato, non rovesciato nel lavandino».
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La norma
Il latte nel Regno Unito è il terzo prodotto alimentare più scartato, dopo patate e pane. Il problema è sentito anche in Italia dove il gigante del settore l’emiliana Granarolo aveva promosso un piano anti-spreco per allungare la shelf-life dei suoi prodotti, scontrandosi però con le rigidità delle norme.
La legge 204 del 2004 fissa infatti la scadenza del latte fresco entro e non oltre il sesto giorno successivo alla data di confezionamento. Ma i supermercati ritirano il prodotto dai banchi frigo già alcuni giorni prima, sostenendo che i consumatori scartano i prodotti con scadenza ravvicinata. «È una cattiva consuetudine frutto di accordi tra aziende e grande distribuzione», denunzia Roberto La Pira, direttore del sito di inchiesta specializzato sul cibo Il fatto alimentare.
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«Eppure continua i produttori sanno che se il latte è conservato a una temperatura costante di 4°C, si può consumare senza rischi anche uno-due giorni dopo la scadenza. Secondo alcuni esperti di microbiologia il latte fresco conservato alla giusta temperatura può durare fino a nove giorni».
Che la norma non sia più adeguata ai miglioramenti tecnologici utilizzati nella conservazione per allungare la vita dei prodotti, ne sono convinti anche alla Commissione Europea a Bruxelles, tanto da aver aperto una consultazione pubblica per togliere la data di scadenza (Tmc, cioè termine minimo di conservazione) in alcuni cibi o comunque inserire il «preferibilmente». Ma non tutti concordano.
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«Si tratta sostiene Coldiretti del solito tentativo dei Paesi del Nord Europa di livellare il cibo sulle tavole europee ad uno standard di qualità inferiore al nostro con la scusa di tagliare gli sprechi alimentari». Sicuramente molti cibi scaduti non provocano alcun male all’organismo, pur perdendo capacità nutrizionali, fragranza e sapore. Bisognerebbe, però, analizzare prodotto per prodotto.
Per esempio, per la pasta secca i 20 mesi indicati sono limitativi, perché essendo un prodotto con pochissima acqua, la conservazione in un ambiente asciutto permette di superare tranquillamente la scadenza. I regolamenti europei non impongono, invece, limiti temporanei di conservazione a vini, liquori, aceti, sale, zucchero allo stato solido, frutta e verdura fresca se non lavorata e imbustata (e, nel caso delle patate, non sbucciate), legumi e neanche ai prodotti di pasticceria e panetteria consumati solitamente nelle 24 ore successive all’acquisto.
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Il report
Non esistono dati precisi sulla quantità di cibo buttato perché scaduto e ritenuto non buono, ma l’enorme quantità degli sprechi è comunque uno dei problemi del pianeta. Ogni anno secondo un report della Fao di settembre il 17% degli alimenti prodotti, pari a 931 milioni di tonnellate di cibo, finisce nei bidoni della spazzatura con un costo stimato in termini di denaro di 400 miliardi di dollari. Ridurre gli scarti alimentari contribuirebbe alla riduzione delle emissioni di gas serra e del consumo di risorse sempre più limitate come terra, acqua, energia, utilizzate per la produzione di cibo.
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Carlo Ottaviano