Le specie
Oggi si chiama foraging. Niente di nuovo sotto il sole: le anziane nonne, senza bisogno di frequentare l’inglese (e talvolta l’italiano) scoprivano ugualmente nei prati straordinarie erbe. L’ottimo spinacio selvatico, per esempio, aveva identica quantità di ferro sia chiamandolo col nome scientifico Chenopodium Esculentus o piuttosto Buon Enrico o parüch (in dialetto bergamasco).
Le aree
Siamo nel periodo migliore per misurarsi con la natura: prima individuando le più buone specie spontanee e poi cucinandole. Perfino nei fossi lungo le strade e nelle aree più isolate dei parchi in città crescono erbe alimurgiche, il cibo di emergenza che un tempo sfamava i poveri e ora fa impazzire i ricchi buongustai. Tant’è che non c’è cuoco più o meno stellato che non citi nel suo menù erbe selvagge, anche senza l’esagerazione del Garibaldi di Cisterna d’Asti che condisce le tagliatelle con 22 specie diverse.
«Le piante spontanee sono dei veri super food, ma vale la pena esaltare ognuna di loro come una gemma dalla poesia unica. Prima di miscelarle, impariamo a conoscerle singolarmente», afferma Dafne Chanaz, cresciuta nei campi del Parco di Veio, laureata in economia, docente universitaria, super esperta del tema. A Roma dirige la Casa del cibo (in zona Monteverde). In libreria, il suo quarto libro: Il prato nel piatto (Terra Nuova Edizioni). «Abbiamo una gamma di sapori e sfumature – spiega – che qualunque chef si sogna. A metà tra mondo delle spezie e mondo degli ortaggi. Un insieme di aromi e di proprietà medicinali che possiamo trovare semplicemente allungando la mano, senza andare in farmacia o erboristeria».
A ogni erba, fiore, arbusto è dedicato un ampio capitolo «diventando un soggetto anziché un oggetto». Il sambuco in fiore, tra le piante più comuni, è forse quello che Dafne ama di più. «Si dice che sia un albero nel quale dimorano gli spiriti. I nostri contadini quando passavano davanti si toglievano il cappello. Era considerato peccato bruciarlo. Poteva essere portatore di benessere o di sventure».
Lo spumante
«È strepitoso lo spumante di sambuco – suggerisce Chanaz – ma attenzione alla fermentazione, talmente poderosa da far scoppiare le bottiglie». Sempre in questa stagione ecco il rovo «che appartiene nientedimeno che alla famiglia delle rose, quindi il suo aspetto spinoso nasconde una natura soave e profumata». Secondo Plinio è astringente ed emostatico e quindi masticarlo lenisce le afte e le infiammazioni delle mucose. Usando i germogli Dafne propone la ricetta del sorbetto, ma lo usa anche come te verde occidentale: «Ne ha il sapore e tutte le qualità antiossidanti, antidiabetiche e antinfiammatorie».
Tante le erbe anche dai sapori amari da gustare anche semplicemente bollite e con un filo di olio. Come nel Lazio il lattugaccio che adesso fa le puntarelle o il cardo mariano «associato alla figura di Maria che avrebbe perduto del latte dal seno mentre fuggiva le persecuzioni di Erode, macchiando e benedicendo le foglie della pianta». Amaro e allo stesso tempo dolce come sono tutte delle nonne in cucina.
La ricetta del sorbetto di germogli di rovo di Dafne Chanaz, Casa del Cibo – Roma
Ingredienti
- Acqua 1/2 l.
- Zucchero 150 g.
- Germogli di rovo 30 g.
- Petali di rosa essiccati 20 g.
- Melissa fresca 7 foglie
- Mandorle 5 g.
Preparazione
Step 1
Fate bollire l’acqua. Aggiungete lo zucchero, i germogli di rovo e la rosa. Tenete da parte alcuni petali di rosa.
Step 2
Lasciate bollire a fuoco lento per 5 minuti. Poi filtrate in un recipiente di vetro e coprite.
Step 3
Quando il compostosi sarà raffreddato, versatelo in una gelatiera o riponetelo in freezer avendo cura di tirarlo fuori ogni 10 minuti per mescolarlo con una spatola, fino a raggiungere la consistenza desiderata.
Step 4
Sbollentate le mandorle per un istante per pelarle. Tritatele e tostatele in una padella a fuoco medio
Step 5
Servite ii sorbetto con le mandorle tostate ed alcuni petali di rosa decorativi.
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