Si chiama anche gota, barbozza, ma nel cuore dei romani c’è la parola guanciale a segnare un piccolo brivido goloso. Da non confondere col lardo, che è il grasso del dorso, o con la pancetta, che è il grasso del ventre il guanciale viene da gota e gola e rappresenta una meravigliosa sintesi tra le venature magre di muscolo e grasso pregiato.
Pepe, aglio, aromi e una stagionatura non paragonabile a quella della pancetta (3 mesi contro 3 settimane), il guanciale interviene in maniera prepotente in tre classici assoluti della cucina romanesca
Basti pensare alla amatriciana, alla gricia (che ne è verosimilmente l’antenata povera, nata in tempi nei quali il pomodoro non era ancora penetrato nelle cucine dei meno abbienti), e alla carbonara, ultima entrata, portata con grande probabilità sulle nostre tavole grazie a una felice combinazione tra le razioni delle truppe americane della Roma liberata e i sapori locali.
Il guanciale al coccio con aceto e salvia fresca è una meraviglia, ma fa grandi cose anche quando avvolge, barda, un filetto. Senza dimenticare la sua felice combinazione con una pasta fresca con verdure, come succede con le strappatelle all’ortolana della Taverna del Bracho.