In principio erano stati i “cinesi” a portare una ventata di esotico a piccolo prezzo nella Capitale, quasi un’alternativa alla classica pizza con gli amici. I “giapponesi” si sono però consolidati nel gusto intercettando molti dei tic che caratterizzavano le mode negli stili di vita rispetto al cibo. Facile gioco negli anni del neo-salutismo, quello della bresaola con la rucola, guadagnare consenso con la semplicità zen di una cucina fresca, pulita, minimal, e per giunta bella da vedere.
Alain Ducasse, stellatissimo padre nobile della cucina moderna francese, non per caso, con un pizzico di sciovinismo ha sintetizzato la perfezione in «materia prima italiana, tecnica francese, presentazione giapponese».
Non meno facile, con l’irruzione prepotente del pesce crudo, trovare gioia nel raffinato labirinto sushi, sashimi, maki. Così, anche sull’onda del turismo giapponese a caccia di italian fashion sono nati – e si sono selezionati nella qualità – numerosi ristoranti di livello, facilitando anche la diffusione piatti un tempo sconosciuti, come il gustoso ramen, una zuppa tosta e densa di immediato impatto.
In questo scambio tra culture non poteva mancare un esempio di sintesi al Bistrot 64 al Flaminio per scoprire le felici contaminazioni di sapori immaginate da Kotaro Noda, uno chef di valore, che ha saputo mettere insieme il Giappone delle radici e la città d’adozione.