Oggi è tutto un fiorire di crudi e di sofisticate variazioni, non prive di contaminazioni fusion (basti pensare alla diffusione della frittura alla giapponese, in tempura), ma un tempo a Roma il pesce era un piatto poco considerato e dove la fantasia aveva molto poco con cui potersi sbizzarrire.
Nel fondamentale testo sulla cucina romana di Ada Boni, pubblicato nel 1930 si parla degli ormai perduti pesci del Tevere, definiti “di qualità non molto fine e piuttosto spinosi”. La laccia argentata e piatta si preparava soprattutto in umido coi piselli, mentre il più panciuto barbo andava arrosto.
Facevano eccezione le “ciriole”, le piccole anguille dalla pelle fine, che trovavano gloria gastronomica in casseruola con aglio, olio, una cucchiaiata di pomodoro e una manciata di piselli, un ingrediente, questo, che “impreziosiva” anche l’insipido palombo.
Le seppie erano piatto sopraffino nelle loro due classiche versioni: in umido, così come nella preparazione con carciofi dove il fondo manteneva l’acciughina, ma sostituiva la cipolla con l’aglio. Il pesce povero per eccellenza era senza dubbio la lasca dal sapore amarognolo, che arrivava dai laghi vicini e che entrava nel menu della vigilia di Natale in zuppa, appena bagnata di pomodoro, magari accompagnando col più pregiato capitone arrostito.