La salsa
Persino nella psicoanalisi se ne parla: chi fa indigestione di maccaroni col ragù, probabilmente ha il complesso di Edipo, pensieri incestuosi annessi. Così teorizzò Sigmund Freud dopo la pasta al sugo di carne gustata a Napoli nel 1902. Venti anni prima, Matilde Serao aveva visto inferno e paradiso nella ricetta creata congiuntamente da un angelo e un diavolo.
I bolognesi contendono (invano) a Napoli la primogenitura, tanto da aver registrato nel 1982 la ricetta con carne suina e bovina, pancetta, mortadella, sedano, cipolle, carote, passata di pomodoro, vino, acqua, sale. Dimenticano che la preparazione deriva dal ragoùt, lo stracotto francese di moda tra i Borboni, nel quale l’ingrediente principale è il tempo. Ce ne vuole tanto – lento e a fuoco lento – per far sì che i singoli ingredienti diventino una sola cosa indistinguibile.
L’antropologo Marino Niola spiega che è nutrimento dell’anima non solo della pancia, «celebra la continuità della vita e la comunione degli affetti. Cose che non si possono realizzare alla svelta con pochi salti in padella».
Il ristretto
Lo sanno bene anche gli chef contemporanei. All’Idylio del Pantheon Iconic Hotel, Francesco Apreda nelle polpette al sugo di ragù (uno strepitoso ristretto di ristretto) mette assieme la sua napoletanità con i frequenti viaggi e crea un ponte ideale Napoli-Asia fatto di profumate spezie. Anche più di quelle indicate nella ricetta di oggi, che lo chef stellato completa con dei quadratini di lattuga di mare sulle polpette, prima di coprirle con l’estratto di ragù e spolverarle di fiori di finocchio, semi di sesamo e peperoncino secco.
«Il ragù – racconta – è casa, profumo di gioventù, di tradizione. Per uno chef fa parte delle preparazioni base. Ma oggi vogliamo dare il nostro tocco. Io lo contamino e rendo intrigante con le spezie, senza dimenticare i capisaldi». A partire dai tagli di carne. La preferenza di Apreda va alle spuntature di maiale, in particolare la parte alta, ‘a tracchiulella (dal greco tràchelos, cioè collo).
«Una cosa è il ragù e un’altra è la carne con la pummarola», distingueva Eduardo De Filippo. Però «la ricetta si presta a tante variazioni, a seconda delle esigenze», scrive Lydia Capasso La cucina di Napoli (Tommasi, 264 pagine, 25 euro). «Se serve per le lasagne si abbonderà con le salsicce, che poi finiranno nel ripieno. Se si vuol servire la carne come secondo piatto, si aggiungerà qualche taglio di prima scelta. Se non si ha paura per la linea, si uniranno le braciole di cotica. L’importante è che il ragù sia curato e lasciato pippiare a lungo».
Il pane
Luciano Pignataro nel suo essenziale La cucina napoletana (Hoepli, 240 pagine, 29,90 euro) spiega: «Pippiare è voce onomatopeica indicante quella fase propedeutica del momento prossimo alla conclusione della preparazione del ragù, allorché dal fondo della pentola, dove è in cottura la salsa di carne e pomodoro, affiorano ripetutamente in superficie delle bolle d’aria che al culmine della tensione si rompono producendo un suono simile a quello che produce chi tira una boccata di fumo dalla pipa».
«Un ragù napoletano che sobbollisse e non pippiasse, non sarebbe un vero ragù», sentenzia Pignataro. Per il formato della pasta – senza dubbi – lo zito spezzato. Ma non dimenticate il pane, per fare alla fine la scarpetta di quel che resta nel piatto e in pentola.